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Mag

28

2012

Il recupero della Costa Concordia è troppo rischioso: ecco perché

Costa Crociere e il consorzio italo americano Titan-Micoperi, vincitore della gara e incaricato dell’esecuzione dei lavori, hanno presentato venerdì scorso il progetto per la rimozione del relitto della Costa Concordia, dopo aver ottenuto pochi giorni prima, il necessario placet definitivo dalla conferenza dei servizi decisoria guidata da rappresentanti del Ministero dell’Ambiente e della Protezione Civile.

«Le fasi operative, in estrema sintesi, saranno quattro: stabilizzata la nave, verrà costruita una piattaforma subacquea e al lato emerso della nave saranno applicati cassoni capaci di contenere acqua; due gru, fissate alla piattaforma, raddrizzeranno la nave con l’aiuto del riempimento dei cassoni d’acqua; una volta dritta, alla nave saranno applicati cassoni anche all’altro lato; i cassoni di entrambi i lati saranno quindi svuotati dall’acqua, non prima di averla opportunamente trattata e depurata a tutela dell’ambiente marino, e successivamente riempiti di aria. Una volta riportato nelle condizioni di poter galleggiare, il relitto sarà trainato in un porto italiano» si legge nella nota rilasciata da Costa, mentre due video (uno ufficiale e breve, l’altro ufficioso e un po’ più lungo) riepilogano la procedura.

Considerate le riserve recentemente circolate sulla presunta non ottima eco-compatibilità del progetto, la compagnia genovese ha battuto molto su questo tasto: «La protezione dell’ambiente avrà la massima priorità nel corso di tutta la durata delle operazioni di questa unica, ciclopica impresa di recupero: qualcosa di mai tentato prima al mondo. Una volta completata la rimozione, si provvederà alla pulizia dei fondali e al ripristino della flora marina». 

Secondo alcuni, però, esisterebbe anche il rischio di un fallimento delle operazioni di rimozione, fallimento che naturalmente avrebbe ricadute ambientali ben peggiori di quelle preconizzate da chi pensa che il progetto Titan-Micoperi sia semplicemente troppo impattante.

È il caso dell’ingegnere romano Ermanno Mancini, che ha studiato il piano proposto, evidenziandone diversi punti deboli: «Per la creazione del “falso fondale” occorrono un centinaio di pali da 2 metri per 5, circa 5.000 mc di calcestruzzo, da installare sul fondale. È quindi necessaria una quantità enorme di attrezzature molto particolari, perché i graniti sono duri da perforare. Tali tecniche generano molto materiale di risulta e producono una quantità impressionante di vibrazioni, con il rischio che lo scafo venga investito da onde d’urto notevoli pericolose ed incontrollabili. Una fila di pali verrebbe a trovarsi sotto la verticale del relitto: se si vuol mettere il fondale sotto lo scafo occorre provvedere con mensole, che, per quanto staticamente sostenute da puntoni, sono pur sempre mensole. La creazione di un appoggio sotto carena, nella parte che attualmente non tocca sul fondo, seppur condivisibile tecnicamente, significa mettere altre 3.000 tonnellate di miscela cementizia sul fondale, di certo non particolarmente ecosostenibili.

Vi è poi un problema sugli ancoraggi di sicurezza, non nei cavi o nei pali, ma nello scafo, su cui si nutrono forti dubbi. In ogni caso, tenuto conto del notevole aumento di peso, i cassoni non saranno in grado di attuare la necessaria spinta di galleggiamento. L’operazione di ribaltamento avviene con la chiglia che ruota in parte sui cilindri riempiti di cemento e sabbia, per l’altra sul granito vivo: alla fine probabilmente lo scafo, per le zone che hanno ruotato sul granito, avrà un numero di falle dalle quali imbarca acqua. Nessuno può escludere che un eccesso di rotazione ruoti la nave dalla parte opposta: se tutto va bene, rimane sul falso fondale, ammesso che il tutto regga l’urto, viceversa affonda. Nel primo caso, comunque, il pescaggio finale si aggirerebbe sui 18 metri, contro gli 8,20 di norma: dove si porta una nave che “pesca” così tanto? Palermo potrebbe andar bene, ma dista 400 miglia nautiche: se durante il viaggio qualcosa va storto (vento, correnti, mare grosso etc.), che succede? Insomma, questa tecnica non presenta alcun punto di ritorno, nessuna garanzia che la nave vada a poggiarsi dove si vuole: perché rischiare così tanto?». 

Se per Mancini il progetto Titan-Micoperi è estremamente rischioso perché impattante e “irreversibile” in caso di problemi, c’è chi è certo di quest’ultima eventualità. È il caso dell’architetto Ettore Lazzarotto, che, in un dettagliato video in due parti, ha delineato per il Giglio addirittura “uno scenario devastante”. Peraltro sollevando molti dei temi toccati da Mancini, senza che i due si siano mai conosciuti. Anche George Tsavliris, armatore greco dell’omonima società di salvataggi marittimi, ha recentemente espresso un parere pessimista sul progetto Titan-Micoperi, preconizzando non un completo fallimento, bensì il ricorso, una volta manifestatasi l’impossibilità di rimuovere il relitto come previsto, al “taglio” della nave in loco, con le prevedibili conseguenze in termini ambientali. Previsione condivisa dal responsabile di una delle succitate società sconfitte, che ha però chiesto di restare anonimo.

Va inoltre detto che, seppure è vero che tutti i quattro “critici” di Micoperi-Titan avevano a più riprese provato a proporre propri progetti per il recupero della Concordia a Costa, istituzioni e, nel caso di Mancini, anche alle aziende invitate alla gara – il che potrebbe indurre a vedere del revanchismo nelle critiche al progetto aggiudicatario –, è altrettanto vero che tutti (con l’eccezione, naturalmente, dell’anonimo manager, la cui azienda era stata invitata) hanno lamentato di aver ricevuto scarsa (Tsavliris) o nulla attenzione (Mancini e Lazzarotto), pur avendo titoli e referenze professionali adatti ad un progetto del genere. Il che – speriamo non sia il caso – pur essendo legittimo trattandosi di intervento pagato (circa 300 milioni di euro) da privati (Costa Crociere e i suoi assicuratori) non sarebbe facile da giustificare in caso di problemi, perché le implicazioni toccherebbero il patrimonio paesaggistico italiano (nonché la reputazione del Paese) e perché già non mancano le elucubrazioni su un’eventuale convenienza, ripulita la nave dagli agenti inquinanti, al definitivo affondamento del relitto.

Per concludere abbiamo chiesto a Mancini di riassumerci le oltre 40 pagine del suo progetto: «I cardini imposti nel mio studio sono due: nessuna interazione con l’ambiente, nessuna interazione “massiva” sulle strutture. Si usa quel che si ha. Su questi due principi ho sviluppato praticamente l’intero progetto, che ha, come caratteristica fondamentale, quello della “leggerezza” in termini di attrezzature, a fronte però di una potenza di sollevamento notevole, circa 147.000 tonnellate (potendo impiegare tutto ciò che ho supposto di poter impiegare). Naturalmente in questa sede non è possibile approfondire adeguatamente quanto progettato.

In sintesi – continua- si è sfruttato minuziosamente quanto si ritiene essere in buone condizioni strutturali e in grado di trasferire all’intero scafo tutti gli sforzi applicati per il sollevamento e la rotazione autonoma. Per far questo, seguendo vari step progettuali, una volta definita l’idea sulla quale lavorare, ho approfondito con tecnici del settore la fattibilità degli elementi di spinta, appositamente studiati e progettati. Si tratta di elementi componibili in gomma/kevlar49, che una volta inseriti e mappati all’interno della nave possono essere controllati singolarmente. La struttura di questi elementi è tale da conferire elevatissime resistenze pressorie, elevate resistenze a trazione, pesi ridottissimi ed estrema maneggevolezza. Importantissimo è stato lo studio dei baricentri, per mezzo del quale si è potuto determinare l’andamento delle scafo in ogni fase simulata delle operazioni, derivandone la tecnica di attivazione degli elementi proprio per affrancare lo scafo da qualsiasi sollecitazione eccessiva o eccessivamente concentrata. L’intero sistema in azione è tenuto sotto controllo da 5 piattaforme inerziali di bordo, confrontate con triangolazioni satellitari e con le telemetrie a terra.

Questo – conclude – consente di avere in tempo reale l’esatto andamento dei punti notevoli e poter effettuare le necessarie correzioni. Il sistema è assolutamente reversibile e controllabile minuziosamente in corso d’opera. Non necessità di nessun intervento particolare sulla nave o in mare, fatte salve alcune opere minori da realizzare a terra. Naturalmente il tutto deve essere verificato personalmente, integrato con visite, rilievi dentro e fuori lo scafo e documenti originali della nave, onde poter correggere ed affinare gli inevitabili errori commessi per “ignoranza cognitiva” della nave. Capitolo a parte meriterebbe la trattazione della messa in sicurezza dello scafo ma non è questa la sede adeguata».

fonte: articolo di Andrea Moizo, Linkiesta

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